In questa puntata della serie Case di artisti in Toscana viaggiamo nel tempo fino all’Ottocento per calarci nello spirito di Goethe, del Romanticismo tedesco e del Grand Tour che proprio a Firenze aveva una delle sue tappe principali.
Böcklin giunse in Italia per la prima volta nel 1850 e si stabilì a Roma: era questa la città che più di ogni altra, allora, attirava gli stranieri ed in particolare i tedeschi, i quali vi giungevano sulla scorta della lettura di Goethe, cercandovi rispondenza profonda ai propri ideali classicisti. Ma Roma era anche la città delle rovine di un grande passato, ricco di storia e di miti, di favole arcane dense di significati, la città che meglio di ogni altra poteva stimolare la fantasia di un artista come lui, sognatore e romantico, il “mondo nuovo di cose note” che il grande poeta tedesco mezzo secolo prima di allora aveva scoperto con entusiasmo e lasciato in eredità spirituale a chi avesse voluto seguirlo.
Giunse a Firenze nel 1874 dopo aver viaggiato a Monaco, Napoli e Pompei, dove potè ammirare gli affreschi della città scomparsa, che dovettero colpirlo anche per la qualità strettamente pittorica, e qui si stabilì per un primo, lungo soggiorno cui altri ne seguirono intervallati da brevi ritorni in patria.
A Firenze, egli visse dapprima in un appartamento in Via Lorenzo il Magnifico, una casa moderna, di recente costruzione come tutta la zona, del resto, che fa parte dell’urbanificazione dei quartieri fuori le mura medievali della città, seguita al periodo in cui essa fu capitale d’Italia.
Sempre in questa zona quasi suburbana, l’artista abitò anche in via del Maglio (ora via Lamarmora) e nell’ex viale Principessa Margherita (oggi Lavagnini) non lontano da quel Cimitero degli Inglesi che è stato messo in relazione con l’ideazione del suo quadro forse più famoso, L’Isola dei Morti eseguito a Firenze nel 1880 e più volte replicato, del quale ha in effetti la struttura come di isola alberata a cipressi, destinata al riposo dei defunti.
A parte questo, la scelta di Firenze, in realtà, appare piuttosto singolare, da parte di un artista la cui opera così bene si compenetrava con lo spirito pagano che era ancora dato percepire nella Capitale. Forse fu perché, come ricordava in seguito la moglie, a Firenze in questi anni la vita costava poco, e, dopo che le era stato tolto il ruolo di capitale d’Italia, i molti alloggi costruiti in quell’occasione erano rimasti semivuoti e quindi molto a buon mercato. O forse, anche, fu l’emergere della componente romantica della sua cultura: Böcklin aveva studiato all’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf, molti anni prima, e un riflesso del cupo spirito nordico era rimasto nella sua predilezione per il mistero e la stupefazione, per il senso di una natura talvolta umbratile, non sempre solare, che trovò il suo simbolo d’eccezione nel cipresso, elemento così tipico del paesaggio toscano, eletto da Ovidio nei suoi versi, a simbolo del lutto eterno. Spirito che, nel corso del secolo, e soprattutto grazie agli ospiti inglesi di Firenze, aveva plasmato per gli stranieri l’immagine della città.
Così, quando nel 1895 acquistò quella che senza dubbio è la più illustre delle sue dimore fiorentine, Villa Bellagio, Böcklin non era più il giovane ospite romano i cui quadri spiravano un caldo alito di vita. Nel 1890 era infatti stato colpito da un primo attacco di paralisi che nel giro di 10 anni ne aveva minato la forza creativa per portarlo poi alla morte nel 1901.
La villa, posta in località San Domenico, compare alla fine di un viottolo scosceso che si imbocca dallo stradone aperto nel 1840 che sostituì l’antico tortuoso percorso della Via Vecchia Fiesolana. Fin dal primo impatto la costruzione appare come un nobile edificio immerso nel verde con logge e loggette, un ampio belvedere e circondata di alti cipressi che contrastano, scuri, con il colore caldo della facciata. Sappiamo che Böcklin stesso volle curare il giardino piantandovi alberi particolari come le palme, allusive ad una mentalità calda, meridionale. Vi fece costruire anche una pista per le bocce, dove poteva allora intrattenere parenti e amici in quel tranquillo gioco. Insieme al figlio Carl, che era pittore e architetto, approntò poi un grande locale sopra l’attuale limonaia, allora stalla, per farvi il loro doppio studio. Una fotografia del gennaio 1901 ritrae Böcklin nel suo interno, seduto davanti ad un quadro che è intento a dipingere, ormai malato da anni.
In modo molto differente, ma con analoga disposizione sentimentale nei confronti dell’Italia e in particolare di Firenze, vi si era stabilito nel 1872 anche un altro artista tedesco, lo scultore Adolf Hildebrand. Aveva acquistato nel 1874 l’ex convento di San Francesco di Paola alle pendici di Bellosguardo, trasformandolo in casa-studio e ospitandovi altri artisti tedeschi. Aveva allora ventiquattro anni, e vi sarebbe rimasto a lungo, creando qui la sua famiglia, i cui eredi tutt’ora abitano questo luogo. San Francesco di Paola non sembra mutato molto rispetto ad allora, quando Hildebrand abitava le sue stanze antiche e a stretto contatto con l’arte del passato, dal Quattrocento fiorentino, a Michelangelo, dall’arte greca del Partenone a quella tardo romana, lui e il suo gruppo elaboravano teorie che sarebbero sfociate nella definizione di un distillato formalismo, in gradi di recuperare analogicamente lo spirito di quelle grandi epoche, facendo grande anche il presente.
La natura, per Hildebrand si traduceva in forme semplificate e austere, ed ecco allora nel giardino delle teste non ancora finite, dove il segno della gradina nel marmo, che rivela il progressivo incedere dell’artista verso l’idea, ha favorito la crescita di un verde morbido muschio, reimmergendo nella natura ciò che la mente umana si era sforzata di estrarne.
Il bassorilievo, in particolare, si prestava a questo processo di scoprimento dell’immagine. Hildebrand lo aveva a lungo studiato nei gessi degli straordinari fregi del Partenone, che si era fatto inviare e che tuttora si trovano alle pareti del grande atelier ricavato nell’ex refettorio del convento. Ad essi certamente pensava nel trarre dal duro calcare il suo casto bassorilievo con Dioniso ebbro sorretto da un satiro, soggetto certo suscettibile di ben altre interpretazioni, assai più enfatiche o plasticamente commosse, che egli risolve invece in forme di contenuto rilievo, statiche ed armoniosamente composte.
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